Quando nel 1994 il Sudafrica dichiarò la fine dell’apartheid, non significava che le persone di colore da quel momento potessero salire su un autobus speciale, ma che potevano salire sugli stessi autobus dei bianchi, con i bianchi.
La fine di una discriminazione non è l’applicazione di una migliore condizione, ma di una pari condizione, basata sul presupposto che tutti gli uomini e le donne sono uguali “senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione” (Art. 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani).
La legge sulle “unioni civili” appena approvata dal Parlamento non unifica né pacifica questo Paese, ma continua a favorire la discriminazione delle persone dello stesso sesso, negando loro il matrimonio ugualitario e creando un istituto parallelo, quasi un ghetto giuridico. Insomma, agli omosessuali che vivono in Italia è stato costruito un autobus speciale, per negare loro di salire sull’autobus degli eterosessuali, con gli eterosessuali.
L’iter che ha portato all’approvazione della legge è stato lungo e complicato. Sulla strada abbiamo visto fedeli sostenitori, ma anche vili traditori e, per un certo verso, l’interlocuzione politica sottesa alla legge ha dimostrato, semmai ce ne fosse l’esigenza, quanta omofobia circoli, tanto nel palazzo, quanto fuori. La legge, frutto di un perverso equilibrismo dialettico che, da un lato, vuole parificare le unioni all’istituto del matrimonio e, dall’altro, vuole faticosamente evitare qualunque confusione, almeno concettuale, con lo stesso, qualifica il rapporto affettivo tra due persone come “formazione sociale specifica”. Questo grottesco arzigogolo giuridico-lessicale mi ha fatto tornare alla mente le parole del Prof. M. Ainis, quando, nel libro “La legge oscura”, nel lamentare la crisi del rapporto tra istituzioni e cittadini, addebitava la colpa alle modalità con cui vengono formate e scritte le leggi, spesse volte frutto proprio di un compromesso politico in cui si vuole normare, ma non così tanto. Ebbene, le unioni civili sono il termometro che misura questa malattia: l’incapacità di decidere cercando di non scontentare nessuno, alla ricerca di un infinito compromesso. E, sempre per citare M. Ainis, il patologico equilibrismo dialettico riaffiora sui temi che contano e lo si può vedere per esempio nell’impianto normativo della legge che depenalizzò l’aborto o nella disciplina che regola lo scioglimento del matrimonio.
Quindi la coppia che contrae un’unione è e resterà per molto tempo una “formazione sociale specifica”.
Detto questo, però, la legge sulle “unioni civili” segna un enorme passo avanti per i diritti delle persone omosessuali e l’onorevole Zan, nel corso delle dichiarazioni di voto, ha centrato il significato politico più profondo del testo di legge, definendola “cultura”, ovvero uno starter delle istituzioni rivolto alla società civile, in grado di avviare un processo catartico non tanto nelle persone che già invocavano tale norma, ma in quelle che ancora vedono le persone omosessuali con ostilità.
Ebbene, questa legge, ne sono convinto, avendone potuto seguire da vicino gli sviluppi giuridico-politici, è il miglior risultato ottenibile. Certo, un testo così sarebbe stato adeguato venti anni fa, come l’onorevole Marzano ha correttamente affermato, ma è il massimo sforzo che si poteva chiedere a questa politica, ma, soprattutto, a questa società, che, ci piaccia o no, in larga parte si riconosce con le ignominiose parole dei deputati leghisti.
Sul tema delle unioni civili, negli ultimi mesi, non si sono semplicemente scontrati conservatori e progressisti, ma qualcosa di più. Si sono fronteggiate due visioni diverse, trasversali all’emiciclo parlamentare, in cui da una parte si sono posti coloro i quali vorrebbero imporre un modello sociale che, in effetti, ha abbandonato da tempo, e per fortuna, la nostra società, e coloro i quali hanno accettato l’esistenza dell’omosessualità e l’esigenza coeva di regolamentare i diritti di questi. Fuori sono rimasti coloro che avrebbero voluto un passo ulteriore e più incisivo, ovvero il pieno riconoscimento della genitorialità. In qualche modo rispondono a questa logica i sondaggi secondo i quali una risicata maggioranza è da tempo favorevole al matrimonio (i sondaggisti difficilmente hanno avuto cura di distinguere il matrimonio dall’unione) e una imponente maggioranza contraria alle adozioni per le coppie omosessuali. Che ci piaccia o no, questa è la condizione dell’Italia. Questa frattura scomposta della società civile non avrebbe mai portato ad una legge diversa rispetto a quella che si è ottenuta e se è vero, come è vero, che nell’era della crisi ideologica il consenso politico si costruisce sui sondaggi, le scelte del partito di maggioranza non potevano essere diverse. Così, dopo diversi tentativi idonei (per esempio i PACS), altri inidonei (i DICO) e altri ancora goffi (i DIDORE) finalmente il nostro Paese si è dotato di una legge! Certo questo non è un merito, visto che siamo in ritardo di almeno di trent’anni rispetto a molti Paesi europei, ma è un dato politico che Renzi non esiterà ad appuntare sulla propria giacchetta, e anche a ragione. Poi, nelle pieghe della storia, andrà collocata la condanna della CEDU per la violazione dell’art. 8 della Convenzione dei diritti dell’uomo e l’ormai costante giurisprudenza italiana che da oltre un lustro è incline a riconoscere, anche sulla base della legislazione previgente alle unioni civili, sempre più ampi diritti alla coppie omosessuali (la mente corre,
solo per fare un esempio, alla L. 184/83 – adozione in casi particolari, stralciata al Senato dal testo attualmente approvato), andrà collocata nella storia pure la guerra manifesta della CEI all’approvazione della legge, il voltagabbana del Movimento 5 Stelle al Senato alla vigilia dell’emendamento Marcucci (il cd canguro) e l’incomprensibile astensione alla Camera, le ingiuriose parole della Lega, di NCD e di una porzione del PD, della tessera Arcigay conferita alla compagna di Berlusconi per indurre questo a miti consigli… ecc. Nel frattempo, una breccia nel muro è stata fatta, non ci resta che buttare giù tutto il resto, ma per fare questo gli italiani, popolo di poeti, navigatori, ma soprattutto santi, ipocriti e bigotti, dovranno familiarizzare con le unioni civili e non tanto con le carte, i registri dello stato civile e le partecipazioni inviate dagli amici/amiche alle nozze, ma con l’accettare di vedere due uomini o due donne camminare mano nella mano, baciarsi sulla panchina, cullare un bambino in fasce. Solo così si potrà compiere il passo ulteriore, ovvero il matrimonio egualitario e l’adozione legittimante per coppie dello stesso sesso e single. Forse ci vorranno altri venti anni, o forse meno, come è accaduto alla Francia, quando dal PACS è passata al matrimonio egualitario, ma, forse, e su questo nutro una certa meditata convinzione, saremo noi eterosessuali a pretendere una rinfrescata all’istituto del matrimonio, così da renderlo più moderno e al passo con i tempi e dunque più vicino alle unioni civili. La mente corre, non a caso, alle pubblicazioni (forma di pubblicità del tutto arcaica ed anacronistica), all’obbligo di fedeltà (risibile feticcio di una società sessuofobica), all’acquisizione del cognome del marito alla moglie (retaggio patriarcale e maschilista), alla lunga procedura di divorzio preceduta dalla separazione.
In ogni caso, ieri, nella “cattolicissima” Italia, è stata scritta un’importante pagina di storia che nessuno potrà mai cancellare.
Antonio Bubici
Presidente Collegio Garanti Anddos
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Fonte: ANDDOS